Mi chiamo Anna, sono un’educatrice professionale e un’attrice della compagnia del Teatro dell’Ortica.
Tenterò di riportare per iscritto un’esperienza di lavoro teatrale con pazienti psichiatrici attraverso il racconto di una storia che vuole essere la sintesi di un percorso contestualizzato in cinque anni di lavoro al fianco di persone che stanno nella sofferenza mentale. Un lavoro di vicinanza su un palco. Da cinque anni, in collaborazione con il C.I.R.S (comitato italiano reinserimento sociale) e con il Centro Diurno di Salute mentale della U.S.L. 3 genovese, il Teatro dell’Ortica conduce laboratori di drammatizzazione con pazienti psichiatrici .

Il 1997 è stato l’anno di inizio del progetto: in una stanza di un appartamento del C.I.R.S., Anna e Mirco, educatori attori, coadiuvati da un volontario, Massimo, con un gruppo di dieci pazienti cominciano ad approntare le tracce di un percorso che, nella sostanza della sua evoluzione, è a tutt’oggi vivo e fertile.
L’avvio sta nella proposta laboratoriale di incontri in cui, attraverso l’uso del mezzo teatrale, riappropriarsi di energie e risorse sopite, comunicando e ricomunicando con il corpo, con la respirazione che traccia nuovi binari per l’uscita della propria voce e della voce di chi ci sta accanto e con lo stimolo a percepire, piano piano, il benessere di queste nuove potenzialità.

La proposta viene accolta, condivisa ed espressa con partecipazione, restituita con la disponibilità a mettersi in gioco in un contesto nuovo in cui è chiesto di improvvisare, caratterizzare, rappresentare.
Le emozioni vengono accolte e rese attraverso cori di voci dai toni bassi, alti, da giochi corporei rigidi, stereotipati che a poco a poco ritrovano una qualche sinuosità.

Gli esercizi proposti dai conduttori sono quelli del training dell’attore; l’offerta però non è didattica ma è portata da chi, in quel contesto, sente di condividere con altri, quelli che vengono definiti come “gli altri”, un’esperienza propria di benessere, di gioco, divertimento, piacere di fare.
“Noi facciamo teatro perché ci piace farlo e quando lo facciamo stiamo bene; speriamo che anche per voi sia la stessa cosa”. Questa è stata la motivazione della conduzione e il filo costante del monitoraggio di osservazione del gruppo: al di là della prestazione verifichiamo “a che si divertano e stiano bene”.

Il primo approccio dunque è consistito nel tentare di portare e di favorire un buon clima che stimolasse e agevolasse il contatto con lo spazio – palco, favorendo così l’esibizione individuale e corale.
La verifica con il gruppo ha dato esito positivo e lo stesso esito si è avuto nelle verifiche con i referenti dei pazienti: con gli operatori si è sottolineato la diversità di espressione e di comportamento manifestata in occasione degli incontri teatrali rispetto ai canoni soliti portati da loro negli abituali contesti istituzionali.

Le aggressività abituali, l’indisponibilità ad accettare il gruppo o il referente, la chiusura, le stereotipie, seppur presenti, trovavano una risposta diversa attraverso la mediazione comunicativa del mezzo teatrale.
La conclusione di quell’anno non ha visto la produzione di uno spettacolo teatrale ma un’uscita in pizzeria: una serata di ricordi di un’esperienza piacevole riportata in maniera congrua, attorno ad un tavolo in cui si esprimeva e si concertava il desiderio di continuare.

Il desiderio si è concretizzato, l’anno successivo, nella ripresa del laboratorio. L’inizio del corso è nuovamente partito dalla stanza di appartamento messa a disposizione dal C.I.R.S.; il procedere del lavoro ha portato ad una verifica positiva della crescente confidenza del gruppo dei pazienti (sempre in numero di dieci con qualche abbandono integrato da nuove adesioni, comunque sempre caratterizzato dalla presenza di due volontari, Cecilia e Luciana); tale confidenza, manifestata da una maggiore ed intensa rappresentazione in risposta agli stimoli offerti, richiedeva uno spazio più consono, più teatrale.

Così il laboratorio si è trasferito in Via Allende a Molassana, nella sede del Teatro dell’Ortica: un palco, le quinte, le luci…..come a dire …si nuota meglio in mare che nella vasca da bagno….
Il gruppo procede nell’apprendimento del mezzo teatrale e continua a trattenere quest’esperienza come un’occasione che si presenta per sperimentare la possibilità di esprimersi nei sentimenti e nella relazione con l’altro attraverso canali diversi da quelli soliti ed istituzionali (la famiglia sofferente, la comunità, il centro diurno…)
Nel corso degli incontri, si assiste ad improvvisazioni esilaranti o commoventi, si ascoltano voci individuali che emergono esprimendo il coraggio e la forza di uscire dal coro e contemporaneamente la capacità di rimanerci facendone parte (proprio come i bravi attori che sul palco, oltre alla propria voce riescono a far sentire quella dell’attore vicino in sinergia di tempi e di azione….quanto è difficile….), si osservano corpi tesi allo sforzo di una rappresentazione; si accoglie il desiderio, riaffiorato attraverso la riscoperta di potenzialità espressive sopite, di rendersi visibili, di rappresentare e di produrre spettacoli.

L’obiettivo della rappresentazione, che anche in questo secondo anno di esperienza laboratoriale non era precostituito, si concretizza osservando e accogliendo l’entusiasmo, l’impegno, la motivazione allo spettacolo manifestata dai pazienti come istanza.
E’ nato così il primo lavoro intitolato “Monologhi, Dialoghi e Quisquiglie”, rappresentato c\o “l’Auditorium” di via Allende a Genova – Molassana.
Lo spettacolo realizzato era la risultanza del lavoro laboratoriale di un anno, era la sintesi dell’accoglienza di quanto espresso sul palco, di quanto, attraverso un lavoro di facilitazione di comunicazione dei conduttori, i pazienti avevano usato nelle movenze e nella voce.

Di quella rappresentazione mi pare importante ricordare l’emozione forte condivisa, l’intero pomeriggio passato insieme per la prova finale, la tensione che si prova a salire su di un palco e che solo gli attori che ti sono vicini riescono a comprendere, l’esibizione davanti ai familiari e agli operatori commossi e contenti di quell’esperienza. In un’ottica di rispetto, era stato chiesto ai pazienti di scegliere chi invitare: si sono espresse ritrosie, timidezze, paure, aspettative…., si è lavorato sulla paura del pubblico e sulla novità di avere un pubblico cioè qualcuno che per sua natura ti ascolta e ti guarda (l’attore è in posizione up, sul palco, il pubblico è in posizione down, giù dal palco)….
Il pubblico c’è stato si è emozionato ed ha applaudito.
Nel 1999 c è stato un anno di interruzione.

In quell’anno si ammala gravemente e muore mio padre: lui mi ha lasciato in eredità la bellezza di apprezzare la vita nella sua interezza attraverso la dimensione del quotidiano e delle piccole cose e, soprattutto, del rispetto per gli altri insegnatomi con forza e da me appreso, scegliendo così, in quell’anno, di fare i conti con il mio dolore nel rispetto per me e per gli altri.
Si riprende nel 2000.

A condurre rimango io perché Mirco inizia una collaborazione come esperto teatrale con il CEPIM UNIDOWN. Mi affianca nella conduzione Massimo, educatore professionale e attore della compagnia, e mi supportano dei volontari, Alessandro, Claudia, Massimo e Rocco.
Gli incontri di laboratorio, stabilizzati nella sede del Teatro dell’Ortica, accolgono un gruppo con delle nuove adesioni, gruppo che numericamente si stabilizza sulla decina.

E’ un anno di ulteriore evoluzione e in questa evoluzione mi ci metto anch’io con i miei cambiamenti, con un’esperienza professionale e umana accresciuta. I giovedì teatrali rappresentano un’intensa esperienza comunicativa: si lavora in maniera approfondita sull’opposizione, sull’accoglienza, sull’adattamento. E’ un lavoro individuale riportato costantemente al gruppo o perché il gruppo è spettatore di una performance individuale o perché il gruppo è coro rispetto a quella performance. Vengono rappresentati il pianto e il riso, i “no” e i “sì”, il cibo, la politica (la tecnica usata è quella della macchina dei rumori del Teatro dell’Oppresso); si dà vita ad improvvisazioni surreali che ricordano il Teatro dell’Assurdo di Tardieau.
Il gruppo è coeso, recettivo e quell’aria di benessere e di buon clima proposta come approccio iniziale di quest’esperienza qualche anno fa, fortunatamente si mantiene e si respira.
E anche quest’aria, credo sia passata nella produzione di quell’anno: “Teatriamo” rappresentato c/o l’Auditorium di Via Allende ,c/o il Centro diurno di Serino e c/o la Comunità di Residenza Psichiatrica Villa S.Maria di Campomorone.
Il finale dello spettacolo, che trovava il suo filo narrante nei giovedì teatrali si concludeva così, con la presentazione di ognuno di noi sul palco accompagnata da un gesto teatrale e seguita dall’applauso…. come dire… io sono.

Anche nel 2001 c’è stata la ripresa dell’attività. Conduciamo io e Massimo, coadiuvati da Alessandro e Rocco con il gruppo di dieci pazienti che, nel 90% , sono gli stessi dell’anno precedente. La prima accoglienza e l’osservazione dei conduttori è volta a quello che, in prima istanza, porta il gruppo: la verbalizzazione, condivisa, del piacere di aver fatto esperienza di “spettacolo “, di essersi esibiti ed esposti con il ritorno gratificante dell’applauso e con il riconoscimento del lavoro fatto.
Cioè : – ho fatto un’esperienza e a seguito di quell’esperienza ho provato – …- ho fatto un’esperienza e di quella esperienza ho trattenuto –

Il lavoro quindi parte dalla bellezza di queste consapevolezze che trovano la via più immediata e naturale nell’esibizione dei momenti teatrali.
La fase del riscaldamento corpo e voce, cioè l’inizio di ogni incontro di laboratorio, si coniuga con questo portato: i tempi della conduzione cambiano e piano piano non occorre più la presentazione o la spiegazione di come usare la voce o di come muovere il corpo individualmente o in gruppo.

Si sente la voce di ognuno e ognuno si muove interloquendo con il corpo e con la voce degli altri. In armonia.
Il gruppo esprime l’aggressività e accoglie e regge quella del singolo: si occupano gli spazi con movenze irruenti con toni di voce alti, urlati. L’irruenza si risolve con il contatto, con la vicinanza all’altro ripresa attraverso corpi dialoganti e sottofondi vocali che agevolano la comunicazione.
L’emotività si ricarica e si riaccende con l’ilarità, con il contatto fisico di chi ha confidenza e lo spazio viene nuovamente “invaso”.
Ci si prende per mano e, a cerchio, si fa girotondo al silenzio.
La comunicazione è fluente e di sicuro questa è un’esperienza positiva e lo è non solo per chi sta nella sofferenza mentale.

I nuovi pazienti, quel 10% di nuove adesioni, sono stati accolti da questo clima: da un clima di chi fa esperienza, diventando competente, e lo porta all’altro condividendo.
Chi conduce facilita e assapora il cambiamento.
Su questo terreno nasce lo spettacolo “Stranità”.
Lo spunto lo propongo io, portando nel gruppo una mia esperienza personale già teatralizzata all’interno di un laboratorio condotto da Mauro Pirovano per il Teatro dell’Ortica, sulla maschera e la commedia dell’arte, a cui avevo partecipato come allieva.
E il percorso continua…